Una prospettiva su questa fase di lotte

I movimenti sorti nei Paesi occidentali riusciranno a non lasciare spazio ai nuovi (o vecchi) populismi (i quali, soprattutto in periodi di crisi come quello che stiamo attraversando, possono intercettare la rabbia della classe lavoratrice indirizzandola verso gli obiettivi sbagliati) e ad avere una essenza internazionalista ed internazionalizzata, facendo in modo che le proprie rivendicazioni non inseguano un benessere basato sulle briciole di ricchezza creata con l’aumento dell’oppressione e dello sfruttamento della classe lavoratrice del “sud” del mondo?
Viceversa, i movimenti nei Paesi del “sud” sapranno evitare di essere preda di nazionalismi o fondamentalismi (antioccidentali), e di riconoscere la strada da seguire non nella falsa libertà di una apertura al capitalismo, bensì nella lotta della classe lavoratrice di tutti i Paesi contro quest’ultimo?
Il capitale si espande: sfrutta, mercifica, inquina, spreme e prosciuga; ma per ogni nuova sussunzione al capitale, una nuova resistenza nasce. Saremo all’altezza dell’attacco globale che, per garantire la propria sopravvivenza, si accinge a sferrare su di noi,  e a opporre ad esso la riappropriazione delle nostre vite attraverso una pratica che collettivamente rivoluzioni l’esistente in vista di un altro modo di essere della società?

Una panoramica globale

La crisi che ha preso il via nel 2008 con l’esplosione della bolla dei subprime negli USA è un fenomeno e lo scenario di un turning point storico nella ristrutturazione del sistema capitalista a livello mondiale. Ha già avuto, e continua ad avere, ripercussioni globali gravi e di lunga gittata, colpendo in maniera pesantissima le economie dei Paesi sviluppati, inclusa l’Italia. Nel nostro Paese come in tutti i Paesi occidentali l’effetto ultimo è quello di un processo di accelerato peggioramento delle condizioni di vita degli strati sociali più bassi della popolazione: il rilancio della crescita come macromisura di risposta, vista come la sola possibile dai governi europei, viene attuato con forme depressive che già a prima vista si rivelano essere più prodromiche ad una recessione che ad una ripresa su larga scala. I governi si ritrovano a ricoprire ormai totalmente il compito di marionette il cui burattinaio è l’enorme potere delle banche e degli istituti di credito, ormai i soli a dettar legge sui mercati, e di conseguenza sulle vite di tutti noi. In Europa la tanto auspicata crescita (intesa nell’unico modo in cui può essere intesa nel capitalismo: crescita dello sfruttamento) non arriverà anche a causa dell’erosione del potere d’acquisto delle lavoratrici e dei lavoratori, eppure l’abbattimento del costo del lavoro, attraverso cui questa erosione viene compiuta in massima misura, non si ferma; anzi, procede a ritmi accelerati; e il tutto per attenersi alle leggi del mercato, che inflessibilmente stabiliscono che bisogna ora controllare l’aumento dell’inflazione per favorire gli investimenti (chiaramente, l’inflazione dei mezzi di produzione, non quella dei beni fondamentali). La finanziarizzazione dell’economia non ha mai significato una separazione tra economia reale ed economia finanziaria, e coloro che portano avanti tale visione sono stati clamorosamente smentiti dai fatti. Ora gli Stati (il cui potere territoriale è arretrato, se comparato all’evolversi dei sistemi finanziari), attraverso un neokeynesismo di ritorno, non riuscendo ad operare sulla seconda forma (ec. finanziaria), si scatenano sulla prima (ec. reale) con riforme ancora una volta totalmente sbilanciate dalla parte del capitale: la distruzione di diritti e garanzie nel lavoro (possibilità di licenziamento più facili, precarietà istituzionalizzata, sistema pensionistico sconvolto) viene affiancato, in parallelo, a un rilancio dei processi di mercificazione. Le pesantissime misure di austerity sul fronte del welfare e dei servizi mettono in ginocchio i lavoratori i quali, oltre ad essere costretti già da anni a fare i conti con il blocco degli aumenti salariali, con la sempre più imperante precarizzazione del lavoro, con l’inflazione – in Europa, in particolare, causata dall’introduzione della moneta unica – e con una vera e propria rapina ad opera delle imprese, alle quali agevolazioni fiscali e ampi poteri di controllo sulla forza lavoro hanno dato la possibilità di far travasare una grossa fetta di ricchezza dal monte salari al monte profitti, sono doppiamente vessati dalla dismissione dello Stato come erogatore di servizi, dalla scuola alla sanità, dai trasporti ad aiuti sociali più specifici (come asili nido, assistenza per anziani e disabili, ecc., che vanno a pesare, come sempre, più sulle donne che sugli uomini).

Lo scenario attuale presenta però non solo la caratteristica dell’abbassamento catastrofico delle condizioni della classe lavoratrice, bensì anche, dall’altro lato, un accentuarsi della ricchezza di chi in questi ultimi anni su speculazioni e sfruttamento ci ha marciato alla grande. Siamo di fronte dunque ad una acutizzazione delle disuguaglianze sociali molto pesante in tutto il “nord” del mondo.

In Spagna come in America si contano a centinaia di migliaia le famiglie sfrattate di casa, strozzate dai debiti contratti con le banche, senza entrate di denaro a causa dei licenziamenti di massa, senza diritto a sussidi né agevolazioni. In questi Paesi come in moltissimi altri le proteste e le mobilitazioni contro la crisi e i piani di austerità stanno avendo luogo con numeri a volte insperati, e con radicalità forte. Nel corso del 2011 si sono visti fenomeni di agitazione e mobilitazione diffusa in moltissime zone dell’area “ricca” del mondo. Basti pensare all’enorme movimento dei Greci contro il piano dell’FMI, al movimento degli Indignados in Spagna, alle varie #Occupy statunitensi, alle rivolte degli studenti e delle “banlieues” in Inghilterra, al processo di riappropriazione del potere decisionale e ricostituente portato avanti dagli Islandesi, dalla protesta generalizzata a Bucarest, sfociata in una occupazione della Piazza dell’Università, allo sciopero dei trasporti e dei servizi pubblici di 24 ore che ha paralizzato il Belgio qualche tempo fa.

La “Primavera araba” si inserisce perfettamente in un quadro di evoluzione dell’attacco del capitale al lavoro: in Egitto le liberalizzazioni sfrenate, con conseguente avvento delle multinazionali, ha creato un esercito di lavoratori precari e non garantiti, tanto che le rivendicazioni portate avanti nel c.d. “programma dei lavoratori” sono state: “la sicurezza nel lavoro e l’abolizione di contratti a tempo determinato […], il ritorno delle società privatizzate allo stato, un salario di sussistenza e la redistribuzione di ricchezza, tagliando gli stipendi in alto, l’aumento degli investimenti nella sanità, nell’istruzione e nel settore pubblico di produzione.” [da:http://www.clashcityworkers.org/index.php?option=com_content&view=article&id=300%3Ail-movimento-dei-lavoratori-egiziani-e-la-rivoluzione-del-25-gennaio&catid=25%3Amateriali-resistenti&Itemid=100]

Anche in Tunisia il grande sommovimento dell’anno passato, lungi da essere “l’effetto di un regime antidemocratico e autoritario, che sfida le norme della ‘comunità internazionale’”, è un principio di riappropriazione del potere da parte di coloro a cui viene sottratta qualsiasi decisione sulle proprie vite proprio a causa del dominio che la “comunità internazionale”, ossia il capitale imperialista, ha esercitato lì, come in molti altri Paesi “non sviluppati”.

In questo Paese, infatti: “…l’ingerenza straniera negli affari interni non è menzionata nei report dei media. Gli aumenti dei prezzi alimentari non erano “imposti” dal governo di Ben Ali. Erano imposti da Wall Street e dal FMI. Il ruolo del governo di Ben Ali è stato di far rispettare la micidiale ricetta economica del FMI, che in un periodo di oltre 20 anni ha portato al risultato di destabilizzare la economia nazionale e impoverire la popolazione tunisina. Ben Ali come capo di stato non ha deciso nulla di sostanziale. La sovranità nazionale era già perduta. Nel 1987, al culmine della crisi del debito, il governo di sinistra di Habib Bourguiba è stato sostituito da un nuovo regime, fortemente impegnato sulle riforme del “libero mercato”. La gestione macroeconomica sotto la guida del FMI era oramai nelle mani dei creditori esteri della Tunisia. Nel corso degli ultimi 23 anni, la politica economica e sociale della Tunisia è stata dettata dal “Washington Consensus”. [da http://www.italia.attac.org/opuscolo_tunisia_attac_napoli.pdf]

Le rivolte non sono solo delimitate entro zone geografiche sebbene vaste (per es., il “Mondo Arabo”): in Cina già da alcuni anni “i lavoratori cominciano a ribellarsi alle condizioni disumane in cui lavorano. Nella provincia di Shenzen, nel sud, ci sono fabbriche gigantesche (compresa la Foxconn), dove si è registrata dall’inizio dell’anno 2010 una ondata di suicidi.” [da Repubblica, 1 giugno 2010, http://video.repubblica.it/mondo/cina-la-rivolta-dei-lavoratori/48178/47761].

La Cina è inoltre il maggior produttore e consumatore di acciaio del mondo, e sta ora cercando di “razionalizzare” il settore, ossia di chiudere le fabbriche meno efficienti e concentrare la produzione; ma i progetti di razionalizzazione incontrano la forte resistenza dei lavoratori, che già da alcuni anni si sono dimostrati molto combattivi.

Italia

Di lotte, resistenze, contestazioni in Italia ne abbiamo viste in questi mesi, sia all’interno dei luoghi di lavoro, che sul territorio, per la difesa di esso in varie maniere. Dalla mobilitazione della FIOM, al movimento dei forconi in Sicilia pur con tutte le sue contraddizioni (per una veloce riflessione su come un siffatto movimento può tendere a due antitetici sbocchi: http://www.pclavoratori.it/files/index.php?c3:o2578), dalla rivolta dei tassisti (seppur corporativistica, vedasi: http://www.ilfattoquotidiano.it/2012/01/14/tassisti/183714/), al movimento delle lavoratrici e dei lavoratori sardi che sta allargandosi in un tentativo di coordinazione su base regionale giusto in questi giorni, alla settimana di alto livello di diffusione della lotta contro la Tav seguita alle repressioni cruente delle manifestazioni del 17 febbraio, settimana in cui in moltissime città italiane si sono svolte manifestazioni, blocchi e presidi in solidarietà alla Valle e al movimento NoTav.

La combattività dei lavoratori, insomma, è in gran parte sopita, è limitata; però non è del tutto insignificante: anzi, alcune esperienze di lotta stanno recuperando velocemente cosa significhi conflitto di classe, grazie ad assemblee e momenti, oltre che pratici, anche riflessivi (vedi come esempio la conclusione di queste riflessioni).

Il punto è però che tutto quanto si possa trovare di avanzato è stato creato in autogestione e autorganizzazione. Non c’è un partito, non c’è un sindacato, a cui le lavoratrici e i lavoratori possano, ora, guardare per avere un punto di riferimento, per avere una organizzazione forte in grado di combattere le sferzate del mordente capitale in crisi.

In un contesto di questo tipo, la CGIL si prepara a firmare l’accordo che spiana la strada al Governo per la riforma del mercato del lavoro: pare che anche il sindacato controllato dal PD si risolva per una soluzione affermativa, dicendo che “è meglio di quanto si sperasse”. Per una disamina attenta e approfondita della “contro”-riforma del mercato del lavoro che sta per venire attuata in Italia, vedasi: http://www.clashcityworkers.org/index.php?option=com_content&view=article&id=365:la-controriforma-del-mercato-del-lavoro-in-4-mosse&catid=25:materiali-resistenti&Itemid=100

Nel frattempo, progetti di ricomposizione politica di ampio raggio non se ne vedono molti. C’è però quello chiamato “No Debito”, la piattaforma lanciata con l’appello “Dobbiamo fermarli!” della scorsa estate: il comitato No Debito ha lanciato una mobilitazione nazionale per il 31 marzo a Milano: “Occupiamo Piazza Affari!”. Riportiamo un estratto dal sito del RID (campagna che tra le sue principali rivendicazioni pone l’istituzione di un audit dei cittadini sul debito e pratiche miranti a togliere potere a banche e istituti di credito e finanziari tutti) come propaganda per l’appuntamento di movimento: “Negazione della democrazia e repressione sono gli strumenti con cui le classi dominanti stanno cercando di fermare e dividere il movimento popolare che va opponendosi al dilagare della precarizzazione e della disoccupazione di massa: lo abbiamo visto in questi giorni in Val di Susa, ma anche contro molte lotte operaie e di resistenza sociale. Chiediamo ai giovani e alle donne, alle lavoratrici e ai lavoratori, ai precari, ai pensionati e ai migranti, ai movimenti civili sociali e ambientali, alle forze organizzate, di organizzare insieme una risposta a tutto questo con una grande manifestazione nazionale a Milano il prossimo 31 marzo!” http://rivoltaildebito.globalist.it/news/31-marzo-milano-occupyamo-piazza-affari           La manifestazione ha visto la partecipazione di circa 20.000 persone “…da oggi, a chi ha occhi e coraggio per vedere, è diventato chiaro che può finalmente ripartire un movimento largo nel paese, che la depressione che sentiamo può essere sconfitta, che l’Italia può ancora diventare un posto degno, dove se le persone sono calpestate non subiscono, ma si incazzano e reagiscono – come peraltro è successo negli ultimi anni in ogni parte del mondo. Certo, la strada per costruire un’opposizione di massa è ancora lunga e non basta un corteo, anzi. Ci vuole tanto lavoro quotidiano, ci vuole presenza sui territori, bisogna stabilire le priorità – capire cos’è davvero importante – e collaborare insieme, sottraendosi alla frammentazione sui posti di lavoro e di studio, sottraendosi all’atomizzazione di uno schermo. Bisogna ricreare una rete di complicità, bisogna, soprattutto, che ognuno che ora tiene la sua rabbia a spasso decida da che parte stare, si getti nella mischia e porti alla lotta le sue capacità e le sue sensibilità.” (estratto da http://www.caunapoli.org/index.php?option=com_content&view=article&id=1113:ora-si-tratta-di-continuare-una-valutazione-a-caldo-sul-corteo-di-milano-qoccupy-piazza-affariq&catid=42:comunicati&Itemid=80)

Per concludere, un significativo contributo di una operaia della Tacconi di Latina, che riflette brevemente sul senso che hanno le battaglie nei luoghi di lavoro nell’Italia di oggi, e che potrebbe venire allargato a tutti i luoghi del mondo in cui oggi la lotta di classe sta riemergendo: “Cosa rappresentano le occupazioni delle fabbriche nell’Italia del 2011? Quale filo sottile le unisce in un’unica ed irrevocabile realtà? Quale politica industriale? Quale Lavoro? Quale futuro? A queste domande nessuno sembra rispondere. Il dibattito politico italiano sul tema lavoro oppone a questioni di diritto altre questioni di “diritto del lavoro”, come se l’unico motivo per il quale il nostro Paese non trova soluzioni al suo rilancio, fosse paradossalmente un “eccesso di tutele”.[…] In tal senso appare logico che tutto questo dibattito sull’eccesso “di garantiti”, che a questo punto rappresentano l’ unica vera anomalia in una logica del mercato del lavoro che sancisce il precariato ad oltranza, non affronta il tema principe del dibattito e cioè: quale lavoro? E soprattutto da quale politica industriale esso è pensato, sostenuto e infine realizzato?le soluzioni a domande complesse come quelli attuali non possono trovare risposta nelle vecchie ricette adottate dove “ il lasciar fare al mercato” produceva come effetto secondario il suo naturale assestamento. (Rosa Emilia Giancola, operaia Tacconi, 19 gennaio 2012, http://www.isoladeicassintegrati.com/2012/03/08/donne-in-presidio-da-414-giorni-a-latina/).

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